sabato 4 febbraio 2017

LO SHIFO DI TEATRO BRESCI. Quando la cronaca rimane in testa e non scende alla pancia.

Amo uscire da teatro ed in silenzio camminare tra le persone che hanno vissuto la "scena", ascoltando i commenti, le sensazioni e le emozioni che si portano a casa. Credo, come già detto, nel teatro che lasci allo spettatore qualcosa, che non sia solo intrattenimento e spettacolo, ma che permetta di pensare e condividere, davanti ad un bicchiere, quello che ci resta da ciò che vediamo. Per questo la rassegna Living Room @Spaziofarma, la casa di FarmaciaZooÈ, è sempre l'occasione per raggiungere ciò che mi piace. L'effetto "pedagogico" è raggiunto anche grazie alla chiacchierata che si può fare con gli attori e il regista al termine dello spettacolo. Qualche settimana fa In questo magico "salotto" Teatro Bresci ha portato in scena uno dei fatti di cronaca più misteriosi degli anni 90 Italiani: l'omicidio "non casuale" a Mogadiscio di Ilaria Alpi, giornalista del TG3 con talento investigativo. "Lo Schifo", dal testo di Stefano Massini, con la regia di Sangati, vede un Anna Tringali nei panni di Ilaria Alpi, tanto brava quanto ingabbiata in una regia aderente al testo in modo così rigoroso da richiedere alla stessa di dover spiegare al pubblico le scelte registiche che, in alcuni momenti, non hanno saputo tirar fuori il lato emozionale di un testo che invece ne è davvero ricco. 
A molti dei presenti un teatro di pura tecnica non è piaciuto, pur riconoscendo l'intensità della storia che ripercorre, attraverso un Ilaria sul punto di morte, tutti i ricordi  del "palcoscenico Mogadisco" impressi nella sua mente. Per la paura di non essere retorica celebrativa la regia è apparsa fredda e distaccata e dell'Africa o dello schifo in molti casi è arrivato molto poco. 
Prendendo a prestito il pensiero di Grotowsky, qui "il tradimento" verso il testo sarebbe stato apprezzato: un tradimento che trasforma, "tira fuori" ciò che sul foglio non si vede, che porta in scena l'attore inconsapevole qual'è lo spettatore nel teatro che piace a noi.
Perché arrivi, il teatro richiede tutti questi piccoli ingredienti che la sperimentazione non deve mai dimenticare, a costo appunto di tradire le nostre stesse idee basate su fondamenti di qualche scuola. Non ce ne voglia Ronconi, maestro del regista Sangati, ma l'evasione dal testo (che qui si presenta in versi e trasforma la musicalità in una sorta di cantilena bloccando le potenzialità emozionali di Anna) avrebbe reso tutto più rotondo, inlcudendo lo spettatore nello Schifo di quei fatti rimasti per alcuni versi ignoti. 
Il teatro qui è stato teatro, con la "T" maiuscola,  non si discute, sapientemente strutturato, "civile" e tecnicamente rispettoso di tutti i canoni di cui esso è pieno zeppo. Ma chi guarda ha sempre il "piacevole dovere" di chiedersi cosa gli resta: un ricordo, un'immagine, un profumo, un fastidio, un sogno, un pizzico di rabbia, un dubbio.
Andare a teatro è una ricerca continua, fatelo fatelo fatelo. 

sabato 28 gennaio 2017

9841/RUKELI - QUANDO LA STORIA NON È SOLO UN FATTO. (Ovvero la pedagogia teatrale nella performance)

Che ci si creda o meno, il teatro ha un potere pedagogico senza pari. Esso è in grado di raggiungere gli individui secondo percorsi inimmaginabili, quasi sempre senza che loro se ne rendano conto. Proprio per questo ogni tragitto di un teatro "narrante" ha la sua dignità, poiché dietro di esso c'è un'intenzione in chi racconta, un motivo per cui egli desidera farsi ascoltare. E tra queste innumerevoli intenzioni, non credo in quella secondo la quale il teatro debba dare delle risposte (presunzione da cui è bene stare lontani), bensì in quella di donare delle domande. Poiché è nel dubbio che nasce la curiosità, che si mette in moto il cervello, allontanandosi dalla "pancia", la grande nebbia dei ragionamenti. 
Ieri sera al teatro Momo di Mestre per la Giornata della Memoria, la performance di 9841/Rukeli di Gianmarco Busetto, da lui diretto in coppia con Enrico Tavella, prodotto da Farmacia Zoo:È, è stata prima di tutto un esempio illuminante di pedagogia. Davanti agli occhi una storia, raccontata con sapienti tecniche narrative, di testo, di luci e di suoni. Dietro, invece, in profondità, l'occasione per lo spettatore di far crescere dentro se stesso domande coinvolgenti la natura umana, guardandosi nello specchio della diversità di tale natura. Si, perché per quanto grande e frantumata sia stata la vita di questo pugile Sinti di Hannover, nelle delirio collettivo di un nazismo che ancora oggi resta un fenomeno sociale più che militare o politico, essa diventa, in un venerdì di un tecnologico 2017, la storia di ognuno di noi. Piccola, fatta di slanci e miserie subite, di provocazioni, dolore, angosce, amore e morte. Sarà per la scelta di dare del "tu" allo spettatore o per l'umanità di certi slanci vocali, ma con Rukeli nascono domande da cui ciascuno può mettersi a cercare se stesso: fino a che punto accettiamo di arrenderci, o a favore di cosa decidiamo di lottare anche a costo della morte?  Quanto la paura di essere ciò che non ci aspettavamo di diventare ci imprigiona impedendoci di scoprire la nostra natura, o di fare ciò per cui siamo chiamati? Siamo davvero pronti ad accogliere le differenze, scoprendone le novità senza timore di vedere travolti le certezze che ci siamo costruiti? Riuscirà l'umanità ad avere un potere politico che parli alla testa delle persone e non alla pancia? Sono certo che queste siano solo una parte degli interrogativi che Rukeli e quel periodo storico ci lasciano. A ciascuno la libertà di chiedersi molto altro e l'invito a guardare teatro non solo per intrattenersi ma per guardarsi, cercarsi dentro, soprattutto attraverso le storie altrui. La performance 9841/Rukeli è un insieme di domande da scoprire, per scavare dentro di noi, pescando nel buio della storia e per certi versi nello schifo che troppo spesso l'uomo è in grado di esprimere, con la forza o con l'indifferenza. Il teatro qui raggiunge il suo scopo. Non c'è dubbio. L'individuo per più di un ora è davanti a se stesso. Andate a vedervi.

sabato 7 gennaio 2017

DOVE SI PUÒ ANDARE A FARE TEATRO?

Nel cercare un senso ed un significato del teatro vissuto come veicolo, come esperienza nella vita di ciascuno, condivido con voi le parole di Fabrizio Cruciani sulla vita di Jacque Copeau.

"Dove si può andare a fare teatro?" chiese quel giovane gruppo fiammingo che faceva teatro per strada.
"Avete ragione" dice Copeau, "si può fare teatro ovunque, purchè si trovi il luogo dove viene rispettata la condizione essenziale per il teatro: deve esserci qualcuno che ha individuato qualcosa da dire e deve esserci qualcun altro che ha il bisogno di starlo a sentire.
Lì si può far teatro, dovunque sia, perfino nei teatri"
Quello che Copeau cerca è una situazione di relazione. Devono esserci dei vuoti. Non nasce teatro dove la vita è piena, dove si è soddisfatti. Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dei vuoti, delle differenze. E' lì che qualcuno sente il bisogno di ascoltare qualcosa che qualcun altro ha da dire a lui.
E' questo il luogo che Copeau cercò di creare.
E sa bene che la società contemporanea è sempre il luogo dei vuoti. Ma nella società contemporanea l'uomo vuoto ha dei bisogni e non lo sa.
Nella società frantumata e dispersa, dove la gente è priva di ideologie, dove non ha più valori in cui credere, sottomessa alle abitudini della vita quotidiana, sommersa di risposte prima ancora di avere domande; è in questa società che il teatro ha la funzione di creare le condizioni in cui ciascun individuo riconosca di avere dei bisogni a cui gli spettacoli posso dare delle risposte.
Copeau non ci riesce.
La grande vittoria di Copeau è quella di aver vissuto fino in fondo tutte le sue sconfitte.
Poteva essere un grande scrittore. E non lo è stato.
Poteva essere un grande intellettuale. E non lo è stato
Poteva essere il regista autorevole e ammirato. E ha rifiutato di esserlo
Poteva essere il padre fondatore della nuova corrente teatrale che faceva teatro nei paesi e nelle campagne. E ha rifiutato di esserlo.
Questa volontà di sconfitta è in fondo l'unica grande vittoria di Jacque Copeau.
Se dovessimo trarre un insegnamento oggi, o meglio se guardassimo tra i grandi uomini di teatro quale insegnamento hanno tratto dalla vicenda di Copeau ne riconosciamo sicuramente uno:
l'uomo di teatro ha il dovere di non essere prevedibile; ha il dovere di essere qualcosa di diverso da ciò che gli altri si aspettano.
E non è solo la legge dell'attore in scena; ma è l'insegnamento che Copeau dà all'esistenza stessa del teatro.
Per questo motivo ogni teatro è pedagogia, e perciò c'è il bisogno di trovare un modo per fare pedagogia: nel teatro e per mezzo del teatro"

La storia di Copeau è la storia di un'utopia. Vissuta pienamente senza risparmiarsi. 
Ognuno di noi ha prima o poi l'occasione per incamminarsi verso la propria utopia, fondandola sui passi precisi e solidi della strada che nel tempo si costruisce. Mi chiedo quando noi adulti suggeriamo, se non addirittura imponiamo,  ai bambini e agli adolescenti di abbandonare quella strada. Lo facciamo in buona fede, con l'obiettivo di proteggerli. Qui non si tratta di obiettivi, di lotte, sacrifici o conflitti. Un utopia è un cammino fatto di ascolto, di incontri di apertura e di accoglienza. Il teatro racchiude tutto ciò, includendo le persone. Tutto ciò che invece è spettacolo le esclude.